Dall'Europa dei ghetti alle banche di Wall Street
Dall'Europa dei ghetti alle banche di Wall Street
Negli Stati Uniti essere un gangster ha rappresentato per molti la strada per diventare un capitalista. Questa considerazione di Mario Puzo, l’autore del romanzo “Il Padrino”, è storicamente vera e deve essere associata a quella altrettanto famosa di Balzac: “Dietro ogni grande fortuna c’è un crimine”. Il sogno americano è stato in fondo niente altro che questo. La possibilità offerta ai reietti dell’Europa di trovare nel Nuovo Mondo un’occasione per cambiare vita e per arricchirsi. Un capitalista, o un banchiere, in fondo non è altro che un gangster che non si è fatto arrestare. Molti degli antenati di coloro che oggi siedono da padroni negli uffici di Wall Street hanno costruito la loro ricchezza grazie ad azioni che, se all’epoca fossero state scoperte, li avrebbero portati sulla forca. John Davison Rockefeller I°, il fondatore della dinastia, divenne incredibilmente ricco nella seconda metà dell’Ottocento con il petrolio sia grazie alle sue capacità imprenditoriali che alla sua abitudine di fare saltare con la dinamite i pozzi petroliferi dei concorrenti. Oggi i suoi discendenti gestiscono i soldi di famiglia, fanno i filantropi e si atteggiano a progressisti, e sono fautori del Libero Mercato e della globalizzazione. David Rockefeller (foto), tanto per ricordarlo, già presidente della Chase Manhattan Bank, è stato uno dei fondatori e finanziatori della Commissione Trilaterale. Soprattutto i capitalisti di oggi cercano in tutti i modi di fare scordare l’origine della loro ricchezza. Si tratta comunque di un meccanismo già visto e che vale anche per l’aristocrazia. La prima generazione fa i soldi, la seconda riempie le proprie case di oggetti belli e di lusso e manda i figli alle scuole esclusive, quelli della terza generazione si atteggiano a grandi signori. Il colore dei soldi Quello che vale per i nobili e per il mondo degli affari vale anche per i gangster. L’irlandese Joe Kennedy, padre del futuro presidente degli Stati Uniti, divenne ricco negli anni venti grazie al contrabbando di alcol gestito insieme a gangsters irlandesi, italiani ed ebrei come Owney Madden, Frank Costello e Arnold Rothstein. Oggi queste vicende sono pressoché ignorate negli Usa e chi prova a parlarne è accolto da reazioni all’insegna del fastidio e dell’incredulità. Sfogliare l’album di famiglia dei potenti e degli innominabili non è mai una bella pensata soprattutto se gli armadi di casa sono pieni di cadaveri. Nella malavita statunitense un ruolo di rilievo venne svolto dai gangster ebrei. Un ruolo che viene spesso e volentieri sminuito se non addirittura negato perché va a mettere in crisi il tradizionale cliché dell’ebreo mite e dedito tradizionalmente agli affari. In particolare, dopo la seconda guerra mondiale, con i milioni di morti ebrei in Europa, azzardarsi a parlare di gangster ebrei poteva sembrare quasi una bestemmia. Eppure, proprio durante la seconda guerra mondiale, Louis Buchalter detto “Lepke” era stato per i suoi due anni di latitanza il primo ricercato d’America, a causa delle centinaia di omicidi da lui ordinati come capo di una gang criminale (la “Murder Inc” o “Anonima Assassini”) che controllava l’intera zona di Brooklyn e che offriva i propri “servizi” in tutti gli Stati Uniti. La sua latitanza e lo stesso processo, al termine del quale fu condannato alla sedia elettrica, tennero per mesi le prime pagine dei giornali facendo concorrenza alle vicende belliche in corso in Europa e nel Pacifico. Poi dopo la guerra e con il peso delle vicende dell’Olocausto, l’argomento “mafia ebrea” divenne di fatto un tabù. Di gangster ebrei si parla per lo più in relazione a figure come quella di Meyer Lansky (nella foto), indicato come esperto riciclatore di denaro e socio d’affari di Lucky Luciano ma ignorato come boss reale di una gang responsabile di decine di omicidi. E questo tipo di negazionismo finiva e finisce involontariamente per trasformarsi in una sorta di razzismo alla rovescia perché tende a rafforzare un luogo comune, quello dell’ebreo esperto solo di finanza. Ha spiegato Rich Cohen, autore di “Ebrei di Mafia”, che suo padre e i suoi amici di Brooklyn che avevano 14 anni quando nel 1944 Lepke fu condannato a morte, ammiravano i gangster ebrei proprio perché rompevano con lo stereotipo dell’ebreo dedito solo agli affari. I gangster ebrei apparivano così a molti loro correligionari come persone che reagivano con la violenza ad un mondo già di per sé violento. Erano gli immigrati provenienti dai ghetti e dagli “shtetl”, i villaggi ebraici dell’Europa orientale, che volevano cancellare per sempre il ricordo dei pogrom a cui avevano assistito o dei quali i loro familiari erano rimasti vittime da parte dei polacchi, degli ucraini e dei russi. Erano gli ebrei che non volevano più subire e che reagivano alle aggressioni che venivano dagli altri immigrati come irlandesi ed italiani con i quali convivevano nei ghetti delle metropoli americane. Ed è significativo ricordare che furono proprio ebrei membri della frazione “menscevica” del partito socialdemocratico russo o membri del “Bund” (il movimento socialista ebraico russo) o ancora provenienti da altri Paesi dell’Europa orientale immigrati in Palestina a creare i kibbutz e a gettare le premesse del futuro Stato di Israele e a dimostrarsi pronti a spazzare via con estrema decisione qualunque ostacolo e qualunque palestinese gli si ponesse di traverso. I gangster e il sogno americano Il libro di Cohen e il film di Sergio Leone C’era una volta in America, basato a sua volta sul libro di memorie di David Aaronson (Harry Grey), un gangster ebreo del Lower East Side di Manhattan, come è facile arguire, non sono stati accolti con molto favore dal mondo ebraico americano proprio perché avevano rimesso in primo piano una questione che sembrava essere stata lasciata nel dimenticatoio. Una reazione in fondo sorprendente perché l’opinione pubblica americana, oggi come negli anni trenta, ha dimostrato di avere una vera e propria passione, e quindi ammirazione, per la figura dei gangster. Basterebbe pensare al successo di film come Il Padrino di Francis Ford Coppola, Bonnie e Clyde di Arthur Penn e Dillinger di John Milius. A proposito di questo ultimo, incentrato sulla figura del pericolo pubblico numero uno degli anni trenta, si deve ricordare che dopo la sua uccisione da parte di agenti dell’Fbi, i familiari dettero il via ad una lunga e fruttifera tournée teatrale per tutti gli Stati Uniti nella quale veniva decantata la figura del fuorilegge vendicatore dell’americano medio che nel periodo della Grande Depressione veniva strozzato dalle banche. Questa ammirazione di massa per persone che vivono ed agiscono al di là della legge e contro di essa, rappresenta l’altra faccia della medaglia del “sogno americano”. Con i gangster, che il più delle volte ce l’hanno fatta e sui quali si proiettano i desideri più nascosti di arricchimento dell’americano medio. Generalmente, e nel libro di Cohen succede proprio questo, l’attività dei gangster ebrei viene vista come limitata alla sola città di New York. Qualche volta poteva succedere che i gangster cittadini venissero “imprestati” per omicidi da compiere in altre città, al pari di qualsivoglia commesso viaggiatore. Ma anche altre città americane vantano, si fa per dire, una tradizione in tal senso. A Newark nel New Jersey, Abner “Longy” Zwillman aveva ai suoi ordini una “famiglia” di delinquenti piuttosto numerosa mentre a Detroit a cavallo degli anni venti e trenta la “Purple Gang” dei fratelli Bernstein controllava con polso ferreo l’intera città. Da immigrati a gangster, il caso dell’Argentina Il percorso con il quale alcuni immigrati da protettori e difensori richiesti della propria comunità si trasformarono in gangster è stato esattamente lo stesso per irlandesi, ebrei e italiani. Se si possono fare soldi controllando il quartiere in cui si vive, perché non cercare di allargare i propri interessi a tutta la città? Non si deve però pensare che la malavita organizzata negli Stati Uniti sia stata solo originata da motivazioni sociali. Molti gangster, italiani ed ebrei, erano già tali nel loro Paese d’origine oltre Atlantico. Si pensi ai mafiosi siciliani e ai camorristi napoletani espatriati negli Usa. O ai gangster ebrei di cui parla Isaac Babel nella sua opera “I racconti di Odessa”. Quello che è successo negli Stati Uniti, per quanto riguarda gli ebrei si verificò anche in Argentina. Nel settembre del 1930 a Buenos Aires incominciò un processo che fece epoca e che si concluse con numerose condanne; quello contro un centinaio di membri di una gang criminale che gestiva con il terrore e la violenza una vasta e ramificata rete di bordelli. Si trattava di gangster ebrei dell’Europa orientale che sfruttavano quasi esclusivamente ragazze ebree polacche importate a forza grazie ad una vera e propria tratta delle bianche. Gangster che usavano come copertura la Società Israelita di Mutuo Soccorso Zvi Migdal (già denominata Warsawska), fondata all’inizio del secolo. Pochi sanno o vogliono ricordare che il tango è nato nei bordelli della Zvi Migdal, traendo i suoi ritmi dalla fusione di musiche degli ebrei dell’Europa orientale e di altre più latine. |
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